[Cabrinews] *La mia Chiesa ha sbagliato *

franco casarsa casarsa.f a libero.it
Lun 8 Gen 2007 08:53:39 CET


*La mia Chiesa ha sbagliato *
di PIERLUIGI CASTAGNETTI

Sono passati dieci giorni dal funerale senza
benedizione di Piergiorgio
Welby, una distanza sufficiente per
sedimentare le emozioni più intense
e riflettere sull'inatteso
dibattito generato da quel freddo comunicato
del Vicariato di Roma.

Se proprio quella doveva essere la decisione, oggi possiamo dirlo,
sarebbe stato meglio fosse stata affidata al parroco di Welby, che
avrebbe sicuramente trovato le parole della pietà e dell'amore
necessarie nella circostanza. Abbiamo letto nei giorni successivi
sulla 
stampa cattolica interventi delicati e faticosi di alcuni
giornalisti ed 
altri invece saccenti e distaccati, che avremmo
desiderato non leggere e
che in ogni caso non hanno aiutato a far
capire la durezza della
decisione. Penso che talune delle critiche
rivolte non già alla Chiesa
ma a "quella" decisione, sia da parte di
credenti (bene ha fatto Europa
a darvi voce) che di non credenti,
siano state una "grazia" per la
Chiesa cui, ne sono certo, nei modi
suoi originali, essa saprà dare
ascolto in futuro. I non credenti. Mi
ha colpito Adriano Sofri: «Si vuol
deridere il non credente che
pretende di insegnare alla Chiesa come
comportarsi.
Io non pretendo 
niente: tuttavia mi aspetto qualcosa. E quando ciò che
succede è così 
rovinosamente contrario all'aspettativa bisogna dirlo...
Fosse anche 
una sola persona a promettere: da oggi non metterò più piede
in chiesa 
(è la frase che abbiamo sentito, non da uno solo) ce ne
sarebbe 
abbastanza. Si può rallegrarsene, chi si auguri che la Chiesa si
screditi e le chiese si vuotino, io non me lo auguro affatto, dunque
non 
me ne rallegro» (La Repubblica, 27/12/06). Anche i laici, dunque,
dalla 
Chiesa «si aspettano» sempre qualcosa di importante. E il fatto
che in 
tanti a modo proprio abbiano avuto il coraggio e l'onestà di
dirlo, lo 
trovo una grazia.

Ma, come dicevo, quella decisione è
risultata poco comprensibile non di
meno a molti credenti. La
giustificazione che persino un vescovo ha
adombrato, mi riferisco alla
(indiscutibile peraltro)
strumentalizzazione fatta dai radicali per un
fine che non può essere
condiviso, cioè la legalizzazione
dell'eutanasia, non è convincente
perché configurerebbe una
motivazione reattiva e in qualche modo a sua
volta politica.

Chiunque 
abbia una qualche confidenza con la sofferenza ha vissuto
quella 
decisione come una ferita fatta a sé, non già perché si fosse
identificato con la scelta finale di Welby, ma con il suo calvario
fisico e spirituale cominciato quarantatre anni prima della morte con
quella tragica diagnosi e continuato sino all'ultima lunghissima fase
di 
vita assistita dal respiratore.

La sofferenza, si sa, crea una
fratellanza strettissima fra gli uomini e
degli uomini con la Croce.
In quei giorni a me è venuta in mente la
scena descritta da Elie
Wiesel in una delle pagine più drammatiche de La
Notte, quella in cui
parla dell'impiccagione di un ragazzino
collaboratore di un Oberkapo
olandese e di un suo compagno, scoperti
mentre sabotavano la centrale
elettrica del campo di Buna. A sera, dice
Wiesel, all'ora 
dell'appello, tutti i prigionieri dovettero assistere
alle esecuzione 
dei tre. «Dov'è il buon Dio? Dov'è?, domandò qualcuno
dietro di me. 
Mentre gli altri due erano già morti il ragazzino aveva
ancora un 
esile filo di vita. Dietro di me udii il solito uomo
domandare: dov'è 
dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli
rispondeva: dov'è? 
eccolo: appeso lì a quella forca...».

Da quando ho conosciuto (cioè
l'ho visto alla televisione come tutti gli
italiani) Piergiorgio
Welby, ho cercato di immaginare senza riuscirci il
turbinio di 
pensieri che attraversavano la sua testa, ma mi confortava
la 
convinzione che lì, nella gabbia del suo corpo apparentemente
inutile, 
gli facesse compagnia Dio, quel Dio a cui, abbiamo saputo poi,
si è 
rivolto prima di morire.
Per questo ho provato sgomento e disagio
nell'ascoltare canoni e
articoli che avrebbero impedito la benedizione
finale.

Mi costa dire queste cose. Perché mi costa criticare la mia
Chiesa. 
Perché, per me come per tutti i credenti, la Chiesa prima di
essere 
istituzione è madre, ed è faticoso dire alla propria madre
«posso 
sbagliarmi, voglio sbagliarmi e in questo caso ti chiedo il
perdono, ma 
penso che tu abbia commesso un errore». Lo dico per amore
della Chiesa e 
per dare forza e ulteriore credibilità alle tante
battaglie politiche
che immagino ci attendano in difesa di valori e
principi indicati 
proprio dal magistero della Chiesa. In caso
contrario, ci potrebbe
essere ricordato da chi contrasterà quelle
battaglie il nostro silenzio
di fronte a una decisione così
apparentemente notarile e distante da un
comune sentimento di pietà e
di sensibilità umana. No, bisogna dirlo. La
Chiesa ha bisogno di
spirito di libertà e di franchezza: «Non spegnete
lo Spirito» (1° 
Tess.
5,19).

Nel poderoso volume del teologo Joseph Ratzingher Il
nuovo popolo di Dio
(Ed. Queriniana) c'è un capitolo intitolato
"Franchezza e ubbidienza" da
cui trovo conforto per questo
atteggiamento. «Come deve comportarsi il
cristiano con una Chiesa che
vive nella storia (ed è fatta di uomini che
come tali possano 
sbagliare, aggiungo io) -- criticamente (per l'amore
della purezza 
della Chiesa), ubbidendo senza discussione (a motivo della
sua 
missione divina), o come? Si potrebbe dire molto semplicemente: egli
deve amare la Chiesa -- tutto il resto segue per la logica dell'amore
». 
E ancora: «Ciò che manca alla Chiesa di oggi (e di tutti i tempi),
non 
sono i panegiristi dell'ordine costituito, ma gli uomini nei
quali 
l'umiltà e l'ubbidienza non sono minori della passione per la
verità, 
gli uomini che danno testimonianza nonostante ogni possibile
travisamento e attacco, gli uomini, in una parola, che amano la Chiesa
più della comodità e della tranquillità del proprio destino».

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