LA CONCEZIONE DELL’ INFINITO IN LEOPARDI

Uno dei punti centrali della poetica leopardiana è costituito dall’idea di "infinito"; con esso s’intende tutto ciò che è illimitato, dunque una dimensione radicalmente opposta a quella umana, caratterizzata proprio da un'insuperabile finitezza. Sul piano delle immagini, quell’idea orienta la poesia leopardiana verso la visione degli spazi celesti, dello sterminato pulviscolo di astri e mondi in esso presenti. Ma essa esercita una considerevole influenza anche sul piano stilistico, inducendo ad un uso massiccio di quei termini "vaghi" e "indefiniti" di cui il Leopardi asseriva la particolare poeticità; quanto più larga e tendenzialmente illimitata è infatti la visione, tanto meno precise e determinate devono essere le parole impiegate per esprimerla. D’altro canto, anche le parole riferite a contenuti non cosmici finiscono nel poeta per assorbire una traccia della stupefazione e dell’annichilimento da lui provati di fronte all’infinito. Va però detto che al cospetto dell’infinito l’uomo è costretto anche a prendere amara coscienza della propria inadeguatezza; creatura finita per eccellenza, egli potrà infatti solo intuire, ma mai compiutamente razionalizzare ed esprimere l’illimitatezza di ciò che è infinito. Alla sua portata è tutt’al più l’ "indefinito", ovvero una pallida controfigura umana di quell’infinità sempre sfuggente. Ciò spiega perché anche in questo caso il poeta provi quel misto di piacere e angoscia così caratteristico del suo rapporto col mondo.

L’infinito (1819)

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

 

E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Il colle e la siepe sono il punto d’arrivo d’un intrattenimento nella memoria, ma anche il punto di partenza per una meditazione sull’infinito. Ed è su questi che lo sguardo cessa d’essere fisico, e si dilata a tutti i sensi, si disaliena dalla sa specifica separatezza per diventare percorso "interiore". Il limite, sintomo dell’assenza, è condizione perché l’assenza si trasformi in una presenza simbolica, e si popoli di forme, d’evocazioni, di memoria. Ed è sintomo del desiderio d’infinito, sintomo della sua non colmabilità; non limite al desiderio, ma sintomo del suo sconfinamento, della sua illimitatezza. Il leopardiano "desiderio illimitato" paradossalmente è rappresentato sulla scena da un limite, che si presenta come caro alla memoria. E’ il confine che definisce le possibilità materiali del piacere (il piacere dello sguardo), ma che esclude il vero "confine".

L’assenza del confine produce l’illusione dell’infinito:

La qualche cosa ci diletta perché l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione i una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende ne concepisce effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l’anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, una impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua immaginazione, o concezione o idea.

 Ma sedendo e mirando…

L’esclusione dello sguardo dall’indefinito orizzonte istituisce il viaggio verso il luogo del desiderio: ma rovescia il limite nella possibilità d’un altro sguardo, dischiude il campo dell’immaginazione, ch’è il solo nel quale il desiderio dell’infinito può prendere figura, e quasi movimento di immagini, diventare teatro di conflitti, identificarsi col desiderio del piacere, e dunque sperimentare lo scarto tra desiderio e piacere. In questa apertura l’ultimo orizzonte non è più l’al di là fisico della siepe, ma è la scena sulla quale il desiderio d’infinito cerca una risposta nell’esperienza simbolica dell’infinito, cioè nella liberazione della "forza immaginativa".

Il piacere dell’immaginazione appare come uno dei "piaceri possibili": "Il tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale, ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce lo possono rappresentare, né la ragione ha un potere di farcelo".

Il desiderio del piacere è "illimitato" la qual cosa non è in opposizione al rapporto che lo sguardo istituisce con limite, con "una veduta ristretta e confinata in certi modi",: il rovesciamento del limite riporta sul piano della immaginazione il desiderio ostacolato:

La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione il fantastico sottentra al reale.
L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si che il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre fanciullo e anche ora…

 

Interminati / spazi di là da quella e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si paura.

Lo sguardo fisico e lo sguardo dell’immaginazione sono unificati nel pensiero, che è il luogo dove la finzione diventa discorso, dove la rappresentazione ha come solo destinatario il soggetto, che è richiamato con forza (io…mi), presagendo quasi il suo smarrimento.

La ricerca di un eccesso, per negazione, del limite è anche detta dalla correzione di un infinito (che chiudeva il verso aperto con Ma sedendo e mirando) con un indeterminato: la parola infinito cancellava la funzione di negazione detta dall’in, per via dell’assunzione del termine infinito nell’ordine della categorie e nel linguaggio filosofico; e questa cancellazione è rifiutata da Leopardi perché avrebbe annullato di colpo un procedimento: l’esperienza dell’eccesso attraverso il passaggio (e la permanenza) del limite. La riduzione del senso di dilatazione che avrebbe dovuto scontare abbandonando la parola infinito (che diceva, immediatamente, il tema dell’idillio, e nominava il movimento di fondo: il desiderio d’infinito) è compensata poi dall’ulteriore variante accettata nell’edizione Starita del ’35 dove interminato / Spazio diventa interminati / Spazi: il plurale assicura lo sconfinamento, e dice già lo spaurimento.

La presenza-assenza della siepe in questo avventurarsi nell’eccesso (di là da quella) corrisponde alla presenza del’io nella finzione. La stessa esperienza dell’infinito non è dicibile se non dopo, ma come illusione, quando il momento della scrittura è già stata, o ci si illude che sia già stata.

Il piacere della scrittura è forse il solo piacere di cui si ha esperienza mentre si scrive. Nonostante il desiderio d’infinito ".. l’animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell’infinito". L’impossibilità di questo "sentimento" è tutt’uno con l’assenza del piacere, dell’esperienza del piacere: e "anche il piacere della speranza, non è mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza".

Il passaggio avviene nel cuore del testo e nel mezzo d’un verso: la congiunzione in apertura annuncia il sentiero dello smarrimento, dove l’infinito coincide col nulla, e il piacere con il naufragio del pensiero: ….E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / vo comparando…

Gli elementi della finzione – spazi, silenzi, queste – sono riunificati in infinito silenzio (e questa volta la parola infinito resiste a possibili varianti, perché non deve incorporare il senso del limite): questa riunificazione nella negazione del suono, nella leopardiana meditazione sul piacere, non è legato al bello, ma al piacevole: più volte nello Zibaldone il linguaggio musicale sarà riportato al di qua dell’estetica, nel territorio appunto del piacere. Il piacere del suono "deriva sì dalla molteplicità delle dette sensazioni indefinite ecc. sì dall’inclinazione del legame che la natura arbitrariamente ha posta fra le sensazioni del suono o canto e l’immaginazione, dalla facoltà che ha dato loro di afficere piacevolemtnte l’orecchio… Anche le osservazioni dello Zibaldone sulla lontananza, essenza del vago e dell’indefinito sono sempre connesse al suono.

Spazio e tempo sono gli "ultimi" orizzonti che comprendono il corpo, ma la loro massima dilatazione, come infinito e come eterno, se trova rispondenza nel desiderio che appartiene al corpo, è anche fonte d’angoscia, per il conflitto permanente tra brevità del proprio tempo e illimitatezza del tempo "al di fuori di sé", tra limitatezza del proprio spazio e sconfinamento dello spazio "al di fuori di sé". Tuttavia questo conflitto, che non è cancellato, come nella dottrina epicurea del piacere, è però spostato nell’immaginazione, non essendo il tempo "una cosa", come dirà nel dicembre del ’26 un frammento dello Zibaldone:

Il tempo non è una cozzassero è un accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla, è un accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola . Medesimamente delle spazio…. Sicché, come il tempo è un modo o un lato del considerar l’esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla

L’immaginazione dello spazio e l’immaginazione del tempo sono ora unificate nella contemplazione del conflitto tra il corpo e la morte, tra la stagione e l’eterno, tra il piacere della ricordanza e la disperazione di non poter fermare questo piacere. Tempo e spazio diventano questa / Immensità . La parola infinità che era ricomparsa (dopo immensitade dell’autografo) nella stampa sul Nuovo Raccoglitore e nell’edizione bolognese del ’26 è definitivamente sostituita, dall’edizione fiorentina in poi, con immensità: sottratta al gioco delle categorie di spazio e tempo, sottratta alla stessa allusione all’irrealizzabile "desiderio d’infinito", riportata verso la grande classica metafora del mare che già prende tutto il campo della scena: "Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio".

La ricordanza, che non è in Leopardi la platonica "reminiscenza", riporta alla ripetizione e questa, come avverrà anche nel testo di Freud, riporta al di là del principio del piacere. La meditazione sul piacere, avviata con lo sguardo sulla siepe, oltrepassa se stessa, riconoscendo che non c’è un tempo del piacere, e che ogni instaurazione della dimensione temporale è anche una produzione d’angoscia. Come oltrepassare questo limite, che non è più esterno, che non è più la cara siepe, e che appartiene al corpo? Come cancellare questo rapporto col tempo inscritto nel corpo? E questo, al di fuori del giardino di Epicuro, in assenza della saggezza che sostituisce il senso del tempo con l’esercizio della filosofia e con la meditazione dei discepoli?

Il "riposo dal desiderio " è una mimesi della morte. Perché ha origine dalla dilatazione delle possibilità del desiderio, e percorre tutti i sentieri, fino a smarrirsi nel bosco della meditazione. La metafora a questo punto, è obbligata, e tutti i poeti ci sono passati: il mare. La metafora che unisce il desiderio e l’essere, il corpo e la metafisica, l’itinerario e l’approdo. Un’esegesi dell’infinito leopardiano può ritrovare, nella finale metafora del mare, il dantesco e medievale "mar de l’essere", approdo di ogni itinerario della mente.

 

E il naufragar mi è dolce in questo mare.

Il naufragio leopardiano, "riposo e desiderio", restituisce, sull’affondare del pensiero, l’io dell’ordine simbolico contro l’io dell’ordine immaginario. Questo desiderio dell’altro, si adempie, ma come contemplazione del nulla. Il nichilismo è l’orizzonte che può essere guardato dal punto di vista simbolico, cioè da punto di vista di un’io creativo, dell’io della poesia. Il desiderio ‘infinito’ si rivela come desiderio del ‘nulla’ e in questa rivelazione espone il massimo legame con la vita, di cui la metafora del mare è portatrice. Il solo infinito è nulla, e questo è infinito nel linguaggio. Su questa affermazione s’intrattiene Leopardi in una zona dello Zibaldone nella primavera del ‘26"…il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla". E ancora, dopo aver osservato che ‘infinito, così come è concepito dall’uomo è "un parto della nostra immaginazione".

Par che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini siano contraddittori: quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti.

 Osservando, un mese dopo, come le categorie di infinito, riferite allo spazio e al tempo, non sono appunto che categorie, "espressione di una nostra idea", così conclude questo appunto teorico sul tema dell’infinito:

 …La infinità del tempo non proverebbe né l’esistenza né la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi l’infinità del nulla, infinità che non esiste né può esistere se non nell’immaginazione o nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria e inseparabile dall’idea o dalla parola ‘nulla’, il quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o alla lingua.

 Il desiderio d’infinito è desiderio del nulla, ma questa coincidenza tra il nulla e l’infinito avviene nel linguaggio. Il linguaggio è il respiro del corpo, del suo limite. Ma come può il limite pensare l’infinito? Non dunque sui sentieri del pensiero, sui sentieri della finzione nel pensiero, si può trovare una risposta al desiderio d’infinito. Né si può cercare questa risposta al di fuori di "questa terra", essendo il desiderio "materiale". Resta lo sguardo del poeta che dalla siepe rivà verso l’avventura d’una figurazione "positiva" dello spazio e del tempo, e da questa ritorna verso una comparazione tra ciò che è e ciò che non è, tra il tempo del corpo e l’altro tempo, tra il "suonano" della stagione e l’assenza di ogni suono e di ogni stagione: questo sguardo vede anche il pensiero annegare, e rinunciare a inseguire teoreticamente il rapporto tra l’infinito e il nulla. Questo sguardo non è più uno sguardo, ma è il corpo dell’uomo, l’assunzione del su limite prima dell’ultimo abbandono, Cessazione dell’analisi. Riposo dal desiderio. Fine della finzione.

Nel naufragar il corpo s’abbandona ad una dolcezza che annuncia, nell’assenza del pensiero e nello spegnimento dei sensi, la possibilità che pensiero e sensi siano per il piacere, en non per la ratio civile. Eros e Thanatos si uniscono non nel suicidio del corpo, ma nel riposo dal desiderio, non nell’istante della morte, ma nell’abbandono ad una dolcezza che travolge, infine, anche il soggetto che sa che questa dolcezza gli appartiene. Il mare invade la scena

Un’onda di vita freme in questa mimesi della morte. Il nichilismo leopardiano grida il desiderio della vita, nell’unico modo che, nella note dei sensi, è ancora possibile: nel linguaggio simbolico, nel linguaggio della poesia. E’ l’esperienza del piacere?


Dallo Zibaldone

Il piacere dell’indefinito

Il sentimento che si prova alla vista di una campagna o di qualunque altra cosa v’ispiri idee e pensieri vaghi e indefiniti quantunque dilettosissimo, è pur come un diletto che non si può afferrare, e può paragonarsi a quello di chi corra dietro a una farfalla bella e dipinta senza poterla cogliere: e perciò l’ascia sempre nell’anima un gran desiderio: pur questo è il sommo de’ nostri diletti, e tutto quello ch’è determinato e certo è molto più lungi dall’appagarci, di questo che per la sua incertezza non ci può mai appagare.

 

La genesi dell’idea di "infinito"

Niente infatti nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia. Noi abbiam veduto delle cose inconcepibilmente maggiori delle nostre, dei mondi maggiori del nostro sec. Ciò non vuol dire che esse sieno grandi, ma che noi siamo minimi a rispetto loro. Or quelle grandezze che noi non possiamo concepire, noi le abbiam credute infinite; quello che era incomparabilmente maggiore di noi e delle cose nostre che sono minime, noi l’abbiam creduto infinito, quasi che al di sopra di noi non vi sia che l’infinito, questo solo non possa essere abbracciato dalla nostra concettiva, questo solo possa essere maggiore di noi. Ma l’infinito è un idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppure per analogia, e possiam dire d’esser a un’infinita distanza dalla cognizione e dalla dimostrazione di tale esistenza: si potrebbe anche disputare non poco se l’infinito sia possibile , e se questa idea, figlia della nostra immaginazione, non sia contraddittoria in se stessa, cioè falsa in metafisica. Certo secondo le leggi dell’esistenza che noi possiamo conoscere, cioè quelle dedotte dalle cose esistenti che noi conosciamo, o sappiamo che realmente esistono, l’infinito cioè una cosa senza limiti, non può esistere, non sarebbe cosa, ec. […]

 

Riflessioni sul testo

La sensibile differenza d’impostazione esistente tra l’ultimo brano e quelli che lo precedono riconduce alla "svolta" avvenuta nel pensiero leopardiano durante la stesura delle "Operette morali" (1824), comunemente definita come un passaggio da un "pessimismo storico" a un "pessimismo cosmico". Mentre infatti nei brani fino al 1821 l’accento era posto soprattutto sulle valenze estetiche dell’idea di infinito, attraverso le immagini "indefinite" che ad esse si ricollegano, in quello del 1826 tale aspetto scompare del tutto, per lasciare il posto a un approccio freddamente teoretico, teso a cogliere l’inconsistenza filosofica del concetto d’Infinito, identificato ora con la negazione radicale dell’Essere, cioè il Nulla. Ciò coincide con l’approfondirsi di un nichilismo nel quale la natura appare malvagia e indifferente alle disgrazie umane; e di un eroismo della poesia che si fa portavoce di questo "arido vero". Solo dalla coraggiosa consapevolezza della negatività della natura e del cosmo intero poteva inoltre nascere, per l’ultimo Leopardi, una solidarietà davvero universale tra gli uomini nel segno dell’accettazione del proprio comune destino.


  • PENSIERI

LXVIII

La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato da raccorne, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dire così dalla terra interna; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali

Nel pensiero LXVIII il Leopardi avverte una verità più profonda, anche se estremamente problematica e apparentemente paradossale; la noia è un sentimento sublime, una riprova della grandezza dello spirito umano, della sua sete d’infinito. Certo, una riprova per via negativa: l’insoddisfazione, l’urto violento e doloroso contro la realtà nella quale il destino ci ha condannati a vivere, attestano la superiorità della nostra anima nei confronti del mondo meccanico della "natura". Questo dramma fra la vita dell’uomo limitata e circoscritta e il bisogno dell’assoluto e dell’eterno che egli avverte inesplicabilmente ma insopprimibilmente nel cuore, è un motivo fondamentale dell’ispirazione leopardiana.

 

LXXIX

Il giovane non acquista mai l’arte del vivere, non ha, si può dire, un successo prospero nella società, e non prova nell’uso di quella, alcun piacere, finché dura in lui la veemenza dei desideri. Più ch’egli si raffredda, più diventa abile a trattare gli uomini e se stesso. La natura, benignamente come suole, ha ordinato che l’uomo non impari a vivere se non a proporzione che le cause di vivere gli s’involano; non sappia le vie di venire a’ suoi fini se non cessato che ha di apprezzarli come felicità celesti, e quando l’ottenerli non gli può recare allegrezza più che mediocre; non goda se non divenuto incapace di godimenti vivi.

Molti si trovano assai giovani di tempo in questo stato ch’io dico; e riescono non di rado bene, perché, desiderano leggermente; essendo nei loro animi anticipata da un concorso di esperienza e d’ingegno, l’età virile. Altri non giungono al detto stato mai nella vita loro: e non quei pochi in cui la forza de’ sentimenti è si grande in principio, che per corso d’anni non vien meno: i quali più che tutti gli altri godrebbero nella vita, se la natura avesse destinata la vita a godere. Questi per lo contrario sono infelicissimi, e bambini fino alla morte nell’uso del mondo, che non possono apprendere

 

LXXXII

Nessun diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di se, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. A questa grande esperienza, insino alla quale nessuno nel mondo riesce da molto più che un fanciullo, il vivere antico porgeva materia infinita e pronta; ma oggi il vivere de privati è si povero di casi, e in universale di tal natura, che per mancamento di occasioni, molta parte degli uomini muore avanti all’esperienza ch’io dico, e però bambina poco altrimenti che non nacque. Agli altri il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande cioè forte; e per lo più dall’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amore. Ma accaduta che sia, o nel principio della vita, come in alcuni, ovvero più tardi e dopo altri amori di minore importanza, come pare che occorra più spesse volte. Certo all’uscire di un amore grane e passionato. L’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desideri intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi; conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tute le atre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze; e ormai può far giudizio se e quanto gli convenga sperare o disperare di se, e, per quello che si può intendere del futuro, qual luogo gli sia destinato nel mondo. In fine la vita a’ soi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non più felice, ma, per dire così, più potente di prima, cioè più atto a far uso di se e degli altri.

E’ evidente, dietro l’atteggiamento apparentemente distaccato di questo pensiero, la sconvolgente passione per Aspasia (Fanny Targioni Tossetti).L’amore è qui sentito per esperienza totale della persona, tale da mutare la vita "di cosa udita in veduta" e "d’immaginata in reale ": lo stesso motivo ispira , con maggior profondità e intensità d’affetti, i canti il pensiero dominante e Amore e Morte. Soltanto nell’amore l’uomo attinge, secondo il poeta, quella pienezza di essere, quella vita spirituale intensa e assoluta che costituiscono la sua vera grandezza.

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