La teoria keynesiana

La teoria keynesiana. Il susseguirsi di continue crisi economiche, culminate con quella gravissima del 1929, che finivano per creare disoccupazione, povertà ed eccesso di produzione, contraddiceva sostanzialmente la legge degli sbocchi, formulata da J. B. Say nel 1803, secondo la quale l'offerta di beni sul mercato è sempre in grado di creare una domanda di eguale intensità, data la sostanziale neutralità della moneta.

Le spiegazioni ufficiali di queste profonde contraddizioni che contrassegnavano le linee di sviluppo del sistema economico capitalistico, facevano riferimento - secondo l'ortodossia liberista dominate - alla mancanza di rigore monetario e all'eccessiva rigidità di certi prezzi, quali i salari.

Questo - sempre secondo le posizioni più conservatrici - avrebbe impedito il libero esplicarsi dei meccanismi automatici del mercato, correttivi di eventuali shock esogeni. Invece, K. apparteneva al gruppo di coloro che - senza giungere alle critiche radicali dei pensatori socialisti - ritenevano che il capitalismo soffrisse di profondi mali, tanto più difficili da curare quanto più ci si rapportava alle interpretazioni mistificanti del pensiero neoclassico. Le ragioni che spiegavano le cause dei persistenti stati di squilibrio del sistema, andavano ricercate in un qualcosa di più profondo rispetto alle ipotesi semplificatrici e riduttive che parlavano di rigidità dei prezzi: la legge di Say non poteva essere accettata perché in un'economia non di baratto, ma monetaria, non c'è alcuna garanzia che all'atto dell'offerta di un bene debba corrispondere un analogo atto di domanda di uguale ammontare. Inoltre, non esiste alcun elemento che giustifichi l'eguaglianza tra il risparmio accumulato e l'investimento da finanziare, così come non ha alcun senso la dicotomia tra economia reale ed economia monetaria, a meno che si faccia ricorso a una concezione della moneta molto riduttiva, quale quella su cui si fondava la teoria quantitativa. Il suo modello, costruito per un orizzonte di breve periodo e per un'economia chiusa di un paese capitalisticamente avanzato, qual era la Gran Bretagna in quegli anni, cercò di definire da quali variabili dipenda il livello del reddito da cui, a sua volta, è definito il livello di occupazione. Quest'ultimo, in definitiva è legato all'ammontare di domanda effettiva, che a sua volta è generata dalle spese per consumi ed investimenti.

Le prime, a loro volta, Teoria economicasono legate a scelte psicologiche individuali e alla presenza di un reddito con il quale fronteggiare siffatte spese. La quota di reddito non destinata al consumo genera il risparmio, che è funzione, dunque, dell'ammontare di reddito di cui ognuno dispone, e non del tasso d'interesse, come sostenevano i neoclassici. Esso, peraltro, crescerà in modo più che proporzionale rispetto all'aumento del reddito: infatti, più i redditi sono elevati e più sarà facile accumulare risparmio. Per l'equilibrio del sistema, l'accresciuto risparmio dovrebbe essere accompagnato da una crescita equivalente degli investimenti, che dipendono a loro volta da fattori completamente diversi, come la redditività attesa dei capitali: questo accade, tuttavia, raramente, dato che la massa di risparmi si mantiene quasi sempre più alta rispetto agli investimenti, generando - di conseguenza - un eccesso di offerta di beni che non trova collocazione in un'adeguata domanda, e questo crea depressione. Questa teoria, che abbiamo esposto sinteticamente, si articolava sullo studio di quattro mercati, quello del lavoro, quelIo delIe merci, quelIo dei capitali e quelIo delIa moneta, uniti da una connessione logica che ci accingiamo a descrivere. Relativamente al mercato del lavoro, dopo aver criticato la teoria tradizionale che parlava di un suo equilibrio fondato esclusivamente sui livelli salariali, tanto che per aumentare l'occupazione era sufficiente ridurre i salari stessi, K. sostenne che anche in questo caso il livello occupazionale è strettamente legato all'ammontare delIa domanda globale e quindi alle scelte imprenditoriali relative agli investi­menti. Il mercato del lavoro è, dunque, strettamente collegato a quanto si registra sul mercato delIe merci, dove è prioritario il ruolo delIa domanda effettiva, nelIe sue due principali componenti, quelIa dei beni di consumo e quella dei beni d'investimento: la domanda che interessa è quelIa «effettiva», in quanto si deve tradurre effettivamente in una spesa. Il consumo non dipende, come ritenevano i pensatori neoclassici, esclusivamente dai prezzi, ma prevalentemente dal livelIo del reddito: tra l'altro è proprio dal livelIo delIa propensione al consumo che dipende la grandezza del moltiplicatore per l'intera economia. Perde, dunque, d'importanza nell'analisi keynesiana la teoria dell'utilità e dei prezzi, mentre il reddito - che nelIa teoria tradizionale era solo un vincolo di bilancio - diventa la principale variabile da cui dipende l'ammontare del consumo, il quale a sua volta cresce, tuttavia, ad un tasso inferiore rispetto a quelIo a cui cresce il reddito. Questa massa crescente di reddito non consumata dovrebbe essere assorbita dall'investimento, al fine di mantenere in equilibrio l'intero sistema. È nel mercato dei capitali che si determina l'investimento, in relazione alla redditività attesa del capitale, confrontata naturalmente con il livelIo corrente del tasso d'interesse. In questo mercato, però, non si determina, come ritenevano i neoclassici, l'equilibrio automatico con il risparmio. Per K. il risparmio non genera automaticamente investimento, ma è una variabile residuale che dipende - come si diceva – dal livelIo del reddito.

Nel mercato dei capitali non esiste, dunque, alcun meccanismo che eguagli automaticamente queste due variabili, risparmi e investimenti, che dipendono dalIe scelte di categorie di operatori completamente diverse tra loro. Risparmiatori da un lato, che tanto più risparmiano tanto più alti sono i loro redditi personali, e imprenditori dall'altro, che tanto più investono quanto più alte sono le prospettive di futuri profitti. Data l'esistenza di queste due categorie di operatori, nessun meccanismo può assicurare la compatibilità tra le loro decisioni: sono proprio le incertezze legate alIa definizione di queste aspettative che, secondo K., generano gli andamenti altalenanti del ciclo economico.

L'ultimo mercato oggetto di analisi da parte di K. è quelIo delIa moneta, al cui interno si determina il saggio d'interesse, la variabile strategica che condiziona, in sequenza, la domanda globale, il reddito e, quindi, l'occupazione. Il tasso d'interesse non è una variabile del mercato dei capitali, come invece ritenevano i neoclassici, perché da essa non dipende l'ammontare del risparmio che - come abbiamo già detto - è una variabile residuale del reddito. Il tasso d'interesse dipende, pertanto, dalIa domanda e dall'offerta di moneta. Mentre quest'ultima è considerata una variabile esogena, in quanto definita dalIe autorità monetarie, la domanda di moneta dipende dalIe scelte degli individui, giustificate dall'eccezionale prerogativa che caratterizza la moneta, quella di essere un bene perfettamente liquido e cioè immediatamente utilizzabile in qualsiasi tipo di scambio.

Per questo K. definisce la domanda di moneta come «preferenza per la liquidità» e il tasso d'interesse come la ricompensa per l'abbandono temporaneo di questa liquidità. Questa teoria consentiva, inoltre, di superare la tradizionale dicotomia tra teoria monetaria e teoria reale. Esistono, dunque, diverse contraddizioni irrisolte nell'insieme dei vari mercati che caratterizzano un sistema capitalistico, a cominciare dal fatto che il tasso d'interesse non è in grado di eguagliare risparmi e investimenti, e questo a sua volta giustifica l'inadeguatezza delIa domanda effettiva rispetto all'offerta, e di conseguenza, incide negativamente sull'occupazione.