LA CRISI DI  WALL  STREET


La crisi economica iniziata il 24 ottobre 1929, il cosiddetto " Giovedì nero", con il crollo della borsa di New York ( che ha la sede in Wall Street ) si differenzia da ogni altro fenomeno di  recessione economica verificatosi fino ad allora nel mondo del capitalismo. E questo  per tre ragioni:

- per la sua lunghezza;

- per la sua intensità;

- per la sua portata mondiale.

Gli Stati Uniti entrarono, in concorso di tempo, a far parte della prima guerra mondiale (1914-1918) alleati con le potenze vincitrici dell'intesa: Italia, Francia, Inghilterra; contro gli imperi centrali: Austria, Germania, Turchia, Ungheria e Russia zarista.

In quegli anni l'industria americana, si era impegnata in una consistente produzione bellica che consentì l'aumento del pil. Il territorio europeo risultò, nel primo dopoguerra, improduttivo in quanto  devastato dalle numerose  battaglie combattutesi su di esso. Si ebbe quindi una forte crisi alimentare alla quale risposero gli Stati Uniti, rimasti  territorialmente illesi dalla guerra, esportando ingenti quantità di grano verso il continente europeo, applicando ad esse prezzi  sempre più alti.

I farmers statunitensi incominciarono ad investire notevoli somme di denaro, chiedendo prestiti a numerose banche, allo scopo di ottenere una produzione sempre maggiore per far fronte alla continua e crescente domanda di grano, bonificando  terre e acquistando attrezzature agricole sempre più all'avanguardia.

Tutti i settori produttivi, corollari e non all'attività agraria, incentivati alla produzione e all'impiego di manodopera adottarono anche numerose innovazioni tecnologiche tra le quali il taylorismo. Alla base di questo nuovo sistema di produzione vi stava un'estrema semplificazione del lavoro basata sulla sua frammentazione in tante operazioni semplici con il risultato di sostituire manodopera qualificata con operai e senza alcuna professionalità ed assunti quindi con salari estremamente bassi. L' enorme incremento produttivo così realizzato provocò i primi segni di squilibrio: il mercato risultava troppo ristretto per accogliere la quantità enorme di merce prodotta. La crisi degli anni '30 si configurò quindi come una crisi di sovrapproduzione, che dagli Stati Uniti si dilatò a macchia d'olio in tutti  i paesi ad economia capitalistica.

Dal 1925 infatti, l'Europa rincominciò ad essere una grande area produttiva con alte capacità concorrenziali. La produzione americana pertanto non  trovava più in Europa il numero necessario di acquirenti e i prodotti rimanevano invenduti. Si passò da una sola nazione produttiva che rispondeva alla domanda mondiale, a un sistema policentrico che portò l'America ad essere piena di eccedenze. Ciò costrinse le industrie a ridurre la produzione e di conseguenza a licenziare grandi masse di operai, i quali, privi di reddito, dovettero ridurre gli acquisti, facendo così diminuire la capacità di assorbimento del mercato interno statunitense.  Gli imprenditori non furono più in grado di restituire i prestiti avuti dalle banche, così come gli agricoltori. Si aprì in questo modo una drammatica spirale che travolse l'economia americana con 13.000.000 di disoccupati  ed un sistema produttivo al collasso.

Alle cause di fondo della crisi se ne sovrapposero altre di natura congiunturale che affondavano le loro radici nella speculazione borsistica. Buona parte della borghesia americana cercò rapidi guadagni nella speculazione borsistica, fidando nella crescente domanda di titoli che non teneva conto delle difficoltà strutturali del settore industriale. 

Questa attività aveva portato alla diffusione di pratiche pericolose come quella dell'acquisto di azioni a credito dando vita ad una economia di carta slegata da quella reale.

Il piccolo speculatore chiedeva un prestito al proprio broker (mediatore di borsa), per ottenere il quale depositava come garanzia una somma, detta margine, che corrispondeva al 30/50% dell'ammontare del prestito. A sua volta il mediatore contraeva prestiti a breve presso le banche. Per porre un limite ai movimenti speculativi esisteva una manovra che consisteva nell'aumentare il tasso d'interesse praticato dalla banca centrale nei rapporti con le altre banche, con il risultato di far crescere tutti gli interessi e quindi di scoraggiare le richieste di credito volte a fini speculativi; cosa che successe solo il 6 agosto 1929, troppo tardi per impedire il crollo della borsa.

La crisi avendo colpito il fulcro del sistema economico internazionale si diffuse in tutto il mondo. La reazione fu quella di contrarre la produzione e sostenere i prezzi, vi era "paura della capacità produttiva" e si imposero cautela e atteggiamenti conservatori nel ricostruire l'economia, con la conseguente caduta della produzione industriale e l'aumento della disoccupazione. Si ebbe la tendenza ad una concentrazione dell'organizzazione economica ed un totale indebolimento del mercato. Vennero adottate barriere protezionistiche sempre più rigide con lo scopo di scoraggiare la concorrenza internazionale. Lo Stato assunse un ruolo di regolatore, attraverso la spesa pubblica e il rialzo delle tariffe doganali, aumentando la formazione di piccoli mondi chiusi. Crollò anche il sistema monetario internazionale fondato sull'oro. Le cause del crollo della base aurea, il cosiddetto Gold Standard, affondano le loro radici nel rigido protezionismo cui fecero ricorso tutti gli stati per tentare di salvaguardare le singole economie nazionali. L'atto formale che decretò la fine del gold standard fu la decisione del governo inglese di svalutare la sterlina e di sganciarla dall'oro dichiarandone l'inconvertibilità.