LA POLITICA ECONOMICA E SOCIALE DEL REGIME

 

Gli agrari e gli industriali avevano appoggiato sin dai primi anni il fascismo, che con la violenza delle sue milizie aveva riportato l’organizzazione nelle fabbriche e nelle campagne e aveva soffocato il movimento sindacale e le organizzazioni socialiste. Per sdebitarsi di questo appoggio, nei primi anni del suo governo Mussolini attuò una politica economica di tipo liberista, che permise agli industriali e agli agrari di aumentare in modo consistente i loro profitti, a scapito dei salari degli operai.

Infatti Mussolini fece approvare una riforma fiscale favorevole ai grossi capitali, la privatizzazione dei servizi telefonici e delle Assicurazioni, il salvataggio da parte dello Stato di industrie e banche in crisi, il contenimento dei salari e l’allungamento dell’orario di lavoro a nove ore.

Grazie a questa politica di liberismo economico, nella prima metà degli anni Venti si verificò un forte sviluppo industriale e le maggiori imprese, come la FIAT, la Montecatini (che produceva fertilizzanti) o la Snia (produttrice di fibre artificiali) aumentarono notevolmente le loro esportazioni.

Nel settore dell’agricoltura , la politica economica del fascismo seguì due indirizzi fondamentali: aumentare la produzione del grano, anche attraverso una bonifica di zone incolte, e accrescere il numero di mezzadri e piccoli coltivatori diretti, frenando l’esodo verso le città.

Ma alla fine degli anni Venti l’economia italiana fu scossa da una grave crisi provocata da cause interne e internazionali. mussolini, per frenare la continua svalutazione della lira, aveva imposto una rivalutazione forzata, che aveva provocato una forte riduzione delle esportazioni.

La situazione precipitò quando anche in Italia si fecero sentire gli effetti della crisi internazionale del 1929: molte fabbriche fallirono, la disoccupazione aumentò sensibilmente (nel giro di pochi anni i disoccupati passarono da 300.000 a un milione) e i salari dei lavoratori furono diminuiti.

Per combattere la crisi, nel 1933 il fascismo diede vita all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) un ente statale che, attraverso il controllo delle banche, finanziava le industrie siderurgiche, cantieristiche e meccaniche. A partire dal 1935 la ripresa industriale fu favorita dalla politica di riarmo del fascismo e dalla guerra d’Etiopia.

Complessivamente l’intervento dello stato nell’economia fu così ampio che alla vigilia della seconda guerra mondiale nessun paese al mondo, ad eccezione dell’URSS, aveva, proporzionalmente, un numero di aziende statizzate maggiore dell’Italia; ma con questa caratteristica: che nello stato fascista la mano pubblica interveniva in difesa di interessi privati e addirittura settoriali. Il sistema, in altri termini, sanciva sia l’intervento dello stato nelle industrie e nelle banche del paese, si per converso l’influenza dei più potenti gruppi industriali e finanziari sulla politica  economica del governo. Con ciò esso legava più strettamente fra loro, in un rapporto di reciproco controllo e di interessi solidali, il regime fascista, la grande industria e l’alta finanza.

 

La battaglia del grano

Meno massicci, ma pur assai rilevanti, furono gli interventi dello Stato nel campo dell’agricoltura. La battagli del grano, iniziata sin dal 1925, era rivolta a diminuire l’importazione di grano, che incideva pesantemente sulla nostra bilancia commerciale. Ampiamente propagandata e sostenuta con incentivi, essa conseguì notevoli risultati, culminati nel 1933 con una produzione copriva quasi per intero il fabbisogno nazionale (mentre nel 1922 si erano dovuti importare oltre 22 milioni di frumento). Da un punto di vista globale essa determinò peraltro la conversione alla cerealicoltura anche di terreni poco adatti, sicché il grano raggiunse sul mercato interno prezzi di molto superiori a quelli del mercato internazionale, con ovvio svantaggio immediato delle classi meno abbienti, costrette a comprimere i consumi, e con svantaggio indiretto dello sviluppo generale della produzione.

 

Bonifiche e lavori pubblici

Nel 1928 fu anche iniziato un ambizioso programma di bonifiche integrali, per il quale lo Stato avrebbe provveduto alle opere fondamentali (risanamento di terreni paludosi, rimboschimenti, drenaggio e controllo delle acque, rete centrale d’irrigazione) lasciando ai privati il compito di completare a proprie spese le bonifiche, con piantagioni, dissodamenti, costruzioni rurali, allacciamento ai canali d’irrigazione, eccetera. Sennonché, per l’inadempienza dei proprietari, il progetto rimase in parte inattuato o si risolse in una serie di finanziamenti a fondo perduto a vantaggio di grandi agrari.

Esito nettamente positivo ebbe invece la bonifica dell’Agro Pontino, che fra Roma e Terracina trasformò radicalmente oltre 60.000 ettari di terre incolte, malariche e scarsamente popolate, facendovi sorgere circa 3000 poderi, adeguatamente sistemati e attrezzati. I lavori ebbero inizio nel novembre del 1931, furono portati avanti alacremente secondo progetti razionali e contribuirono fra l’altro ad alleviare la disoccupazione, che a causa della crisi era enormemente incrementata.

Allo stesso scopo, fra il 1929 e il 1934 il fascismo diede un particolare impulso ai lavori pubblici, sviluppando la rete stradale, autostradale e ferroviaria (come del resto avveniva in tutti i paesi industrializzati) e incrementando l’edilizia pubblica (municipi, poste, palazzi di giustizia, scuole) con opere di proporzioni talvolta grandiose, ma di dubbia funzionalità e di gusto monumentale e retorico.

 

Giornali e radio al servizio del fascismo

Durante l’epoca fascista, dopo la soppressione dei giornali contrari al regime come l’Avanti, l’Unità o la Voce Repubblicana, tutti gli altri giornali furono posti sotto il controllo delle autorità fasciste che li utilizzavano per fare una continua propaganda e di esaltazione del regime. Oltre ad esaltare continuatamene il DUX e le opere del fascio, i giornalisti dovevano assolutamente evitare di riportare notizie che mettessero in luce i problemi della società italiana.

Il fascismo si servì per fini propagandistici anche della radio,che proprio negli anni Venti compiva i suoi primi passi in Italia. Nel 1927 fu istituito l’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) l’antenato dell’attuale RAI, un ente di monopolio statale utilizzato in modo sempre più esplicito come uno strumento di propaganda del regime. Ma, poiché erano poche le famiglie che potevano acquistare un apparecchio radio e pagare il canone di abbonamento, il governo fece distribuire apparecchi nelle scuole rurali, nei Municipi, nei dopolavori e fece installare altoparlanti nelle piazze e nei luoghi di ritrovo, cosicché nessuno potesse sfuggire all’azione di indottrinamento del regime.

 

Il cinema dei “telefoni bianchi”

Il fascismo diede una grande importanza anche al cinema, che negli anni Trenta era diventato la principale forma di divertimento e di passatempo della popolazione italiana, soprattutto dopo l’avvento del sonoro, nel 1930. Nel 1924 fu istituito il LUCE (L’Unione Cinematografica Educativa), principale strumento della propaganda fascista, e nel 1937 fu inaugurata a Roma Cinecittà. Anche la produzione cinematografica, come quella radiofonica, era sotto lo stretto controllo politico del regime.

La propaganda diretta era affidata ai Cinegiornali LUCE, che erano proiettati obbligatoriamente nelle sale cinematografiche prima dei film. I principali filoni dei film del ventennio erano quello storico, e quello dei cosiddetti  “telefoni bianchi”. Le autorità del regime incoraggiavano la produzione di pellicole a carattere storico come Scipione l’Africano o Ettore Fieramosca, che dovevano servire per riaffermare agli occhi del popolo le radici storiche del fascismo. I film dei cosiddetti “telefoni bianchi” erano invece ambientati nel mondo della borghesia, dove appunto il telefono bianco era un simbolo di agiatezza economica. Si trattava di storie intricate e incredibili, senza alcun riscontro con la realtà; ambientate in improbabili Paesi stranieri; infarcite di uno zuccheroso ottimismo con protagonisti spensierati, privi di problemi, se non quelli amorosi.

 

Un popolo di atleti e di soldati

Le autorità fasciste profusero grandi energie e finanziamenti per lo sviluppo delle attività sportive in Italia, dal momento che nulla più dello sport rispondeva alle esigenze fondamentali del regime. Inoltre lo sport inteso come competizione agonistica altro non era per il fascismo che una preparazione alla guerra  e quindi “quanto più profonda è la disciplina impartita nelle libere manifestazioni sportive, tanto più facile l’allestimento di quella militare”.

Inoltre il fascismo si serviva delle vittorie italiane in campo sportivo per rafforzare lo spirito nazionalistico degli italiani e come forma di  propaganda del fascismo. Alcuni dei maggiori campioni utilizzati a scopi propagandistici dal regime furono il pugile Primo Carnera, campione dei pesi massimi nel 1933, i ciclisti Binda e Guerra, i campioni automobilistici Nuvolari e Ascari.

Per obbedire all’imperativo mussoliniano “sport per tutti”, l’educazione fisica diventò obbligatoria in ogni ordine di scuola; le associazioni e gli enti del partito organizzavano attività di educazione fisica e di sport per tutti i cittadini dai bambini più piccoli alle donne, dai gerarchi ai lavoratori nelle fabbriche; inoltre ogni anno si tenevano rassegne ginnico-militari come i “Littoriali dello Sport” e i “Campi Dux”.

 

“Libro e moschetto, fascista perfetto”

Mussolini era consapevole che il regime per perpetuarsi doveva educare le nuove generazioni ai principi del fascismo. Il processo di fascistizzazione della gioventù fu realizzato attraverso due strumenti fondamentali: la scuola e le istituzioni giovanili, create appositamente dal regime, l’Opera Nazionale Balilla e la Gioventù Italiana del Littorio (GIL) ei Gruppi Universitari Fascisti (GUF). Nel 1923 fu approvata la riforma della scuola chiamata “Riforma Gentile”, dal nome del filosofo Giovanni Gentile che fu incaricato da Mussolini di elaborarla. Questa riforma prevedeva, tra le altre innovazioni, l’esame di stato, l’insegnamento religioso obbligatorio nella scuola elementare, l’estensione del latino ai licei e agli istituti magistrali. Si trattava quindi di una riforma che tendeva a privilegiare le materie umanistiche rispetto a quelle scientifiche e differenziare nettamente una scuola superire destinata a formare la futura classe dirigente e una destinata alla massa dei cittadini. Ma il processo di fascistizzazione della scuola fu realizzato soprattutto attraverso l’adozione del libro di testo unico per la scuola elementare, che naturalmente doveva rispondere alle esigenze politico-culturali del regime. Nel 1926 fu fondata l’Opera Nazionale Balilla, che raccoglieva tutti i giovani dagli otto ai diciotto anni e impartiva loro un’educazione soprattutto fisica e paramilitare; infatti i giovani indossavano una divisa e imparavano a usare il moschetto, che nel caso dei ragazzi più piccoli era di legno. Dal 1937 l’ONB fu trasformata nella Gioventù Italiana del Littorio, che raccoglieva tutti i giovani da sei ai ventun anni: dai sei  agli otto anni i bambini erano “figli della lupa” e indossavano la prima camicia nera; a otto anni diventavano “balilla” o “piccole italiane”, poi a quattordici “avanguardisti” e “giovani italiane” e infine “giovani fascisti”

 

La famiglia e la donna

La “politica demografica” del fascismo era stata lanciata da Mussolini con un discorso nel 1927, nel quale il Duce aveva detto: “Tutti gli Imperi hanno sentito il morso della loro decadenza quando hanno visto diminuire il numero delle loro nascite”. Perciò il popolo italiano se voleva fare sentire la sua potenza e la sua “forza nella storia nel mondo” doveva crescere di almeno dieci milioni di persone. L’obiettivo fondamentale della politica demografica fascista era quello di “combattere la denatalità” incoraggiando le coppie a mettere al modo molti figli e a non spostarsi dalle campagne alle città, dove si verificava una diminuzione delle nascite. Così nel 1928 era stata approvata una legge che concedeva agevolazioni fiscali e facilitazioni nelle assunzioni ai coniugi con molti figli; inoltre le autorità distribuivano ogni anno migliaia di “premi di nuzialità” e premi per la prole numerosa”. per favorire lo sviluppo demografico il fascismo cercava di scoraggiare le donne a intraprendere gli studi o un lavoro. Così con alcune leggi erano stati dimezzati i salari delle donne rispetto a quelli degli uomini, erano state raddoppiate le tasse nelle scuole e nelle università, era stato proibito alle donne di insegnare lettere e filosofia nei Licei e di essere assunte nelle Amministrazioni dello Stato. Per giustificare queste discriminazioni il fascismo sosteneva apertamente l’inferiorità della donna rispetto all’uomo: “la cui cultura della donna non può in nessun modo essere pari alla cultura maschile”; “il cervello femminile non è per natura preparato alle scienze, alla matematica, alla filosofia, all’architettura”. In conclusione il compito della donna fascista era quello di essere una “madre prolifica”.