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STRAGE DI MARCINELLE

 

E TUTTO COMINCIO' COSI'


I bei manifesti rosa, affissi in tutti i comuni d’Italia,parlavano di un lavoro sotterraneo nelle miniere belghe. Naturalmente non fornivano alcun dettaglio su questo lavoro, soffermandosi invece sui vantaggi dei salari, delle vacanze e degli assegni familiari. La realtà che trovarono i lavoratori italiani in Belgio fu, invece, ben altra cosa: un lavoro durissimo e pericolosissimo da affrontare senza alcuna preparazione specifica.
L’accordo del giugno 1946 tra Italia e Belgio, infatti, prevedeva l’invio di 2000 giovani disoccupati la settimana da far lavorare nelle miniere belghe in cambio della vendita a basso costo di un certo numero di tonnellate di carbone. Naturalmente il benessere personale dei lavoratori entra poco in queste considerazioni di strategia politica ed economica.

 I candidati minatori sono avviati da tutta Italia verso Milano dove, sotto la stazione, tre piani sotterranei sono a loro disposizione. Dopo aver superato le visite mediche e dopo un viaggio che poteva durare anche 52 ore, gli italiani sono scaricati non nelle stazioni riservate ai passeggeri ma nelle zone destinate alle merci. Qui vengono allineati secondo il pozzo nel quale dovranno andare a lavorare. Un altro trauma che i lavoratori devono superare è quello dell’alloggio infatti vengono sistemati nelle baracche di legno che erano utilizzate dai prigionieri russi durante l’occupazione nazista. Come si può capire erano alloggi indecenti al limite della vivibilità.
Questo popolo di lavoratori era tenuto lontano dalle città nascosto in campi sconosciuti alla maggioranza dei belgi: era un popolo invisibile. Li chiamavano anche “musi neri” per il particolare tipo di lavoro che svolgevano. I primi arrivi di italiani hanno anche suscitato movimenti di rifiuto di stampo razzista in Belgio e numerosi furono le risse e gli incidenti tra belgi e italiani: come si può notare sembra che la storia non abbia insegnato nulla a noi italiani.



 

LA STRAGE

 

L’8 Agosto 1956, era un mercoledì, 275 uomini scendono nelle miniere Bois du Cazier di Marcinelle. Le gabbie degli ascensori avevano distribuito le squadre nei vari piani, a quota 765 e 1.035. Un carrello esce dalle guide e va a sbattere contro un fascio di cavi elettrici ad alta tensione senza rete di protezione. Subito divampa l’incendio e le fiamme si propagano immediatamente. Solo 13 lavoratori sopravviveranno. Le vittime sono 262 di cui 136 italiani, il più giovane di 14 anni e il più anziano di 53 anni. Molti degli italiani morti erano calabresi provenienti da tutte le province che come moltissimi altri erano alla ricerca di una vita migliore e più dignitosa. La tragedia fu immane e per la prima volta fu seguita da vicino dalla televisione, media in ascesa in quegli anni. Il lutto colpì 248 famiglie e lasciò 417 orfani.
Il processo che seguì si concluse con l’assoluzione dei dirigenti della società mineraria e la responsabilità fu attribuita all’addetto alla manovra del carrello, un italiano anch’egli morto nel disastro. La tragedia colpì la comunità italiana e fece conoscere a tutti le condizioni proibitive del lavoro nelle miniere. Il governo italiano, incalzato dalle opposizioni, fu costretto a bloccare le vie ufficiali dell’emigrazione verso il Belgio.


Tra il 1946 e il 1963 ben 867 italiani persero la vita lavorando nelle miniere belghe. In questi giorni gli italiani sono in ferie e i calabresi inseguono incessantemente sagre e feste di piazza ma l’8 Agosto sarebbe giusto rivolgere un pensiero e una preghiera a tutti gli italiani emigranti che subirono violenze e umiliazioni, trovando, in molti casi, anche la morte, distruggendo così la speranza in un futuro migliore. La storia deve servire anche da monito a tutti affinchè ogni emigrante trovi giustizia, pace e tranquillità nella nazione in cui è ospitato.

 

VERSIONE DEI FATTI

 

-Verso le ore 8.10, due carrelli restarono incastrati in una gabbia a 975 metri di profondità. Risalendo, urtarono e provocarono il distaccamento di una trave, la quale tranciò dei cavi elettrici e dei tubi d'olio e di aria compressa: tutti questi eventi insieme provocarono un imponente incendio. Essendo avvenuto nel pozzo di entrata dell'aria, il fuoco e il fumo raggiunsero ben presto ogni angolo della miniera.

-L'allarme venne dato alle 8.25 da un uomo risalito in superficie.

-Alle 9.10 il pozzo di estrazione dell'aria era già inutilizzabile. I cavi delle gabbie di questo pozzo cedettero a poco a poco.

-Due persone tentarono alle 9.30, senza equipaggiamento, di farsi strada attraverso un tunnel laterale. Il tentativo risultò vano. Il passo d'uomo venne allargato solo quattro ore e mezza più tardi e ciò permise di scoprire numerosi cadaveri.

-Una spedizione scese poi verso le 15.00 attraverso il primo pozzo e scoprì tre sopravvissuti. Gli ultimi tre furono scoperti più tardi, da una spedizione diversa.

-Il 22 agosto, alle 3 di notte, dopo la risalita, coloro che tentarono il salvataggio dichiareranno in italiano "tutti cadaveri". Alla fine persero la vita 262 uomini, di cui 136 italiani e 95 belgi.

Il dramma fu orribile, anche perché spesso i minatori calabresi venivano ingaggiati nell'ordine di villaggi interi e questo fece sì che molte donne rimasero vedove nell'Italia meridionale.

Il resto degli immigrati italiani avvertirono gli effetti di questo tragico incidente e successivamente la regolamentazione in materia di sicurezza sul lavoro venne resa più rigida.

Il Presidente della Repubblica ha ritenuto di conferire la Medaglia d’oro al merito civile alla memoria dei 136 connazionali scomparsi nel disastro di Marcinelle in Belgio.

 

TESTIMONIANZE

--"Nous sommes une cinquantine. Nous fuyons les fumées vers les quatres paumes..."

--Fu scritto con il gesso su di una tavoletta di legno da una delle vittime,

--mentre cercavano scampo...

«Il mio numero di medaglia era il 276». Le miniere di carbone del Belgio nei racconti dei minatori casalaschi Quante strade portarono nelle miniere del Belgio? Dai campi e dalle officine del casalasco che non offrivano di che vivere o garantivano una stentata sopravvivenza, si arrivava Marcinelle per incontrare la uguale miseria e la somigliante umanità friulana e siciliana, fiamminga e polacca - l’Europa riunita nelle viscere della terra, per trarne profitto. Si arrivava a Marcinelle per trovare una vita - soldi per la famiglia rimasta in Italia, un paio di scarpe nuove, il cinema la domenica... Si arrivava a Marcinelle per poi trovare la morte.

La testimonianza

DAVIDE GIALDI Nato a Viadana il 17 dicembre 1929

"Leggendo i manifesti affissi all’ufficio di collocamento, venni a sapere che in Belgio c’era lavoro nelle miniere di carbone. Fino ad allora avevo fatto un po’ di tutto: cavar piante, campagne allo zuccherificio, manovale al Genio Civile a mettere i “fascinon” (fascine di legna) ai pennelli del Po. Avevo anche lavorato nelle risaie del vercellese. Trovare lavoro non era certo facile e così decisi di partire. Avevo 17 anni e “obbligai” mio padre, che era contrario, a firmare l’autorizzazione ad emigrare minacciandolo viceversa di arruolarmi in marina.

Partimmo in un gruppo che comprendeva Adriano Biffi, Mino Incerti, Spartaco Torelli, Valentino Cirelli e Pietro Benvenuti. C’era anche Americo Aroldi che però venne scartato alla visita medica a Milano poiché gli mancava un dito ad una mano. Arrivammo a Charleroi con una tradotta di oltre mille emigranti alle quattro del pomeriggio del 4 dicembre 1947, giorno di Santa Barbara, festa dei minatori. Scendemmo alla stazione io, Biffi e Incerti mentre tutti gli altri proseguirono per il Limburgo.

Ci caricarono su dei camion e ci portarono nella località di Marcinelle dove alloggiammo in una “cantina” gestita da un italiano mi pare di ricordare bergamasco. Successivamente, nel mese di marzo, poiché si spendeva troppo, trovammo una camera in affitto in un’altra località distante circa un paio di chilometri: Montigny sur Sambre, al numero 25 di rue de Cimetière.

Il 5 dicembre ero già al lavoro alla miniera numero 24 di Marcinelle al turno del mattino. Il primo giorno mi dissero di seguire un capo (era un italiano). Già sull’ascensore, che scendeva velocissimo, presi paura. Una volta arrivato al fondo percorsi a piedi circa tre chilometri in galleria. Nessuno ci aveva spiegato a cosa andavamo incontro. Pian piano vedevo davanti a me sparire gli altri ad uno ad uno e mi sembrava di essere rimasto da solo al buio. Non sapevo che in realtà ognuno era entrato in “taglia” al posto che gli era stato assegnato. All’inizio mi misero a fare il manovale a spingere il carbone sul “bac” che era una specie di canale di metallo che, azionato da stantuffi, spingeva in avanti il carbone a strattoni. Dopo circa due mesi e mezzo ho chiesto di passare minatore a cottimo. Lavoravo a 830 metri di profondità. Il mio numero di medaglia era il 276. Ho lavorato in taglie alte da 80 a 50 centimetri: a volte facevo fatica ad entrarci coricato e neppure la lampada ci entrava diritta.

In taglia prima di cominciare a lavorare, ci facevano arrivare sul “bac” il materiale necessario ad armare: i “bil”, gli “sclemp”, le gambe di ferro, i puntelli ecc. ecc. Questo materiale arrivava velocemente e bisognava stare molto attenti a non essere colpiti.

Dopo 20 giorni di lavoro ero già pronto per rientrare in Italia: l’ascensore che in un minuto scendeva a 800 metri di profondità, la paura dei crolli, una polvere che non si vedevano neppure le lampade, il frastuono del “motopiq” e del carbone trasportato sui “bac”... ma nessuno di noi voleva cedere per primo. Inoltre faticavo anche a guadagnare qualche soldo: prima la paga da manovale era molto bassa poi, come minatore a cottimo, essendo inesperto guadagnavo poco. Con quello che spendevo per la “cantina” non mi rimaneva quasi nulla e invece avrei voluto mandare qualcosa alla mia famiglia che ne aveva bisogno. Ho fatto il primo mese con un solo paio di scarpe che usavo sia in miniera che fuori: avevo sempre i piedi neri! I primi soldi che mandai a casa furono 1.500 franchi che mi aveva prestato il cugino di Adriano Biffi e che corrispondevano ad una discreta somma: se non ricordo male circa 20.000 lire dell’epoca.

Poi pian piano la situazione è migliorata: mi sono comprato un paio di scarpe e un vestito. Riuscivo a mandare a casa regolarmente una parte di quello che guadagnavo. Mia madre prima di spendere qualcosa, oltre lo stretto necessario per vivere, mi scriveva: comprò una stufa, un letto, dei materassi e il resto cercava di metterlo da parte.

I miei compagni di lavoro erano italiani (mi ricordo dei bergamaschi ma anche diversi cremonesi che erano arrivati qualche mese prima), greci, polacchi e belgi. Fino alla metà del 1948 c’erano anche dei prigionieri di guerra tedeschi. Per un po’ di tempo ho lavorato con due di loro. Ho lavorato anche con un russo (si chiamava Victor) prigioniero di guerra perché era stato collaborazionista.

Non ho mai subito dei seri infortuni. Una volta ero salito in cima ad una taglia per finire di armare in un punto dove c’era il “grisou”: mi sentii mancare i sensi ma fortunatamente scivolai verso il basso in un punto dove di “grisou” non ce ne era. Questo gas era pericoloso non solo per le esplosioni ma anche perché procurava l’asfissia. In questo modo era morto un mio compagno di lavoro originario del Lago di Garda. Al rientro in Italia io e Adriano Biffi andammo a trovare i suoi genitori.

Si lavorava sei giorni alla settimana. Alla festa andavamo a caffè, al cinema o a fare due passi a Charleroi dove compravamo della cioccolata e soprattutto delle banane che vendevano ad ogni angolo a poco prezzo.

Nell’agosto del 1949 decisi di ritornare in Italia: il lavoro in miniera era pessimo e non si guadagnava quello che speravo. Finito il servizio militare incontrai ancora molte difficoltà a trovare un lavoro e così, dopo la solita trafila di occupazioni saltuarie, decisi di andare di nuovo in Belgio: era l’agosto del 1955. Questa volta partii con Carlo Ballerini e Guglielmo Goffredi. Lavoravo sempre nella zona di Charleroi, in una miniera nella località di Fontaine l’Eveque. Ero già più esperto e in questa seconda occasione fu meno dura. Rimasi fino al gennaio del 1957 e poi decisi di smettere definitivamente.

I tre anni di lavoro in miniera (sempre in taglia) mi hanno procurato una silicosi del 26%.

Rientrato in Italia, lavorai per 11 mesi alla costruzione del ponte sul Po. Successivamente emigrai in Svizzera dove rimasi circa due anni, imparando il mestiere di stuccatore."

 

 

A COSA SERVI' TALE TRAGEDIA

 

Solo dopo la tremenda tragedia di Marcinelle venne finalmente introdotta nelle miniere del Belgio la maschera antigas. Le condizioni in cui lavoravano i minatori erano deplorevoli; il Governo Italiano per la reazione scandalizzata della popolazione, della stampa e dei sindacati di fronte all'alta frequenza con cui si succedevano gli incidenti nelle miniere belghe, interruppe a volte l'enorme esodo di manovali italiani verso il Belgio. Altra conseguenza fu una regolamentazione più severa in materia di sicurezza sul lavoro.

 

 

 

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