L’INCIDENTE DEL 26 APRILE 1986

Nella notte tra il 25 ed il 26 aprile 1986 il quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, esplose. Il disastro, causato dall’immissione di una eccessiva quantità di materiale radioattivo, provocò una dispersione di combustibile alla unità 4 dell’impianto con conseguente esplosione di vapore: in pochi secondi la produzione di energia nel nocciolo del reattore, un RBMK da 1000 MW , superò di 100 volte il livello massimo normale con un aumento enorme della temperatura. La lastra di metallo da 2.000 tonnellate che sigillava la sommità del reattore fu squarciata da due esplosioni che determinarono la diffusione in atmosfera di centinaia di tonnellate di grafite presenti nel nocciolo; l’incendio e la fuoriuscita di materiale radioattivo continuarono nel corso dei 10 giorni successivi. Durante l’esplosione morirono due persone, ma subito dopo altre 187 manifestarono sintomi acuti da irraggiamento e di queste 31 morirono nei giorni seguenti. Gran parte di queste vittime erano i primi soccorritori, i pompieri che tentarono di domare l’incendio. Le stime quantitative dell’esplosione di Chernobyl indicavano che al di là dei muri della centrale fu rilasciata il 3.5% della radioattività totale. Ma secondo dati più recenti tale cifra rispecchia solo la quantità dei radionuclidi “pesanti” scaricati in atmosfera( Iodio 131 ed il Cesio 134-137 ha raggiunto il 50- 60%, mentre il rilascio di gas rari quali lo Xenon ed il Kripton è stato del 100%.


La quantità totale di isotopi liberati è stata valutata pari ad una attività di 11 Ebq (un miliardo di miliardi di Bequerel). Il fall - out di materiale radioattivo fuoriuscito dal reattore esploso ha interessato dapprima le regioni più prossime alla centrale, causando una significativa contaminazione dei territori della Ucraina, della Bielorussia e della Russia e l’irraggiamento della popolazione che abitava nelle immediate vicinanze della centrale ( 120.000 persone) poi, il 27 e 28 Aprile, masse di aria radioattiva raggiunsero anche i Paesi Scandinavi. Il 28-29 Aprile, la nube radioattiva fu divisa in due parti da una corrente d’ariafredda che andava da ovest ad est: una parte si diresse quindi a nord-est e l’altra verso i territori della Polonia e della Germania. Tra il 30 Aprile ed il 1 Maggio la nube radioattiva arrivò nel nord della Grecia ed in Italia, Svizzera, Austria occidentale e Cecoslovacchia dove fu registrato un notevole incremento del livello radioattivo. Nei giorni successivi si diffuse a nord - ovest e sud-est dell’Europa. Contemporaneamente fu registrato un aumento del livello di radioattività di fondo in Gran Bretagna, Belgio, Irlanda e nelle regioni a sud-ovest della Francia. Nell’Europa sud - orientale l’impatto dell’esplosione di Chernobyl si sentì maggiormente tra il 3 e il 5 Maggio; il fall-out radioattivo massimo in quel periodo si registrò in Grecia, Jugoslavia, Italia, Turchia, Albania. Tra il 6 e l’8 Maggio il fall-out si spostò anche molto lontano dal luogo dell’incidente, si registrarono infatti aumenti dei livelli della radioattività di fondo anche in Cina, Giappone, India, Canada, USA. Ma nonostante il fall-out radioattivo abbia interessato anche regioni geograficamente molto lontane da Chernobyl, il 70% della radioattività rilasciata dallo scoppio del reattore si è abbattuta sulla Bielorussia. Gli interventi messi in atto per contenere il disastro causato dall’incidente e per l’evacuazione della popolazione ad alto rischio hanno coinvolto circa 800.000 persone fra cui il personale della centrale e numerose squadre di soccorritori.


Le unità di intervento erano costituite ognuna da un ingegnere, a capo di gruppi di 10 ingegneri, ciascuno dei quali a sua volta coordinava 100 operai. Sulla sorte di queste persone, i cosiddetti “ liquidatori”, i dati sono estremamente discordanti. Secondo il Chernobyl Committee of the Repubblic of Belarus, ne sarebbero decaduti 10.000 e 400.000 risulterebbero affetti da varie patologie, mentre secondo quanto emerso dal congresso internazionale EC/CIS svoltosi a Minsk nel 1996, ne sarebbero deceduti 43 e 134 risulterebbero colpiti da patologie da irraggiamento. L’ingegnere che ha raccontato a Legambiente come erano organizzati i gruppi di intervento, lui stesso a capo di una di queste squadre di mille persone, ne è l’unico superstite. Ricerche condotte da scienziati ucraini e israeliani, evidenziano che un terzo dei liquidatori, in prevalenza giovani, è stato colpito da malattie dell’apparato riproduttivo; in un altro studio clinico condotto da un gruppo di ricerca ucraino coordinato da S.Komisarenko, è stata rilevata una diffusa tendenza tra questi soggetti, direttamente impegnati nelle prime fasi di soccorso, ad ammalarsi di patologie varie, riconducibili tutte ad una sofferenza del sistema immunitario, non più in grado di svolgere l’azione di protezione dell’organismo da agenti esterni. A pochi mesi dall’incidente, nel meeting IAEA di Vienna dell’agosto 1986, i sovietici mostrarono un inedito atteggiamento di disponibilità a fornire dati sull’incidente - era in atto la glasnost di Gorbaciov - ma la relativamente ampia quantità di dati su quanto era avvenuto e sulla entità dei rilasci radioattivi che erano stati riscontrati nel territorio, era comunque sempre molto lontana dalle cifre reali.

La tesi dell’errore umano, sostenuta con forza dal governo sovietico per tutelare il proprio prestigio tecnologico, venne ben accolta e largamente propagandata dall’Occidente, che aveva conosciuto od intuito altri eventi meno gravi, ma potenzialmente altrettanto devastanti, e che aveva quindi forte interesse a dimostrare la sicurezza “intrinseca” della tecnologia nucleare. Ancora oggi nell’ambiente tecnico-scientifico occidentale, ma anche in parte di quello dell’Est, si valuta che buona parte dei segreti sulla dinamica e sulle conseguenze dell’incidente non siano stati resi pubblici, da ciò deriva anche la difficoltà di trovare la giusta correlazione tra cause ed effetti.


Il reattore nucleare del quarto blocco della centrale di Chernobyl era di tipo RBMK-1000, un adattamento di un reattore militare, destinato quindi in origine a produrre materiale fissile a scopo bellico e privo di strutture di contenimento rinforzate per poter contenere gli effetti di un eventuale incidente. Venne quasi totalmente distrutto dall’esplosione del 26 aprile 1986. Il tetto superiore (Helena) di circa 2.700 tonnellate che costituiva la struttura di protezione e di collegamento di tutte le varie parti del reattore, si è come afflosciato su se stesso e, con il resto della struttura in cemento armato, è rimasto appeso in posizione quasi verticale, provocando lo sprofondamento della base del reattore di 4 metri rispetto alla sua posizione iniziale. Tutto questo ha determinato la distruzione delle strutture di supporto e di conseguenza il crollo delle parti sottostanti con il perforamento del tetto della sala comandi. La parte del reattore che è andata distrutta, essendo l’area in cui maggiore era l’irraggiamento, è divenuto immediatamente inaccessibile per le elevate temperature che si sono sviluppate e per l’enorme quantità di radiazioni che si sono sprigionate essendo anche saltato il sistema di isolamento ermetico. Il magma incandescente costituito da materiali ferrosi, cemento armato, combustibile nucleare e gas è stato quindi eruttato in atmosfera andandosi a depositare su tutti i locali della centrale e sul territorio circostante. Per tutte le prime settimane il livello di radiazione dell’area intorno al reattore si è mantenuto nell’ordine delle migliaia di Roengten ( 100.000 Roengten / h ), mentre nell’area di estensione della centrale raggiungeva le decine di migliaia di Cu/Km2 ed il muro di elementi radioattivi, che si è alzato fino a quasi 2 Km di altezza, si è disperso in un raggio di 1.200 Km. L’emergenza era rappresentata dalla necessità di isolare il reattore distrutto, così da bloccare la fuoriuscita di radioattività e proteggere quindi l’ambiente e la popolazione delle aree circostanti. Vennero proposti ben 18 progetti di protezione. Fra questi venne scelto il progetto “ Sarcofago”, una specie di piramide a copertura delle macerie. Per la ricostruzione del primo strato del sarcofago furono utilizzate le parti del reattore esploso, determinando di fatto un aumento del rischio di contaminazione. Per la costruzione degli strati successivi e per due cinta di mura sono stati impiegati 300.000 tonnellate di cemento e oltre 100.000 tonnellate di strutture metalliche. Questa mastodontica struttura di contenzione ha fatto crescere di dieci volte il peso sulle fondamenta dalle 20 t/mq alle 200, provocando un progressivo abbassamento del terreno - che poggia su uno strato argilloso - che ha raggiunto i 4 metri .


Il lento processo di sprofondamento ha determinato il cedimento in più parti del sarcofago, che a Gennaio 1996 presentava in superficie circa 1000 metri quadrati di crepe e buchi, dai quali fuoriescono polveri, acqua e gas radioattivi. Il pericolo imminente che si presenta ad oggi è il crollo del tetto all’interno del sarcofago che determinerebbe l’ulteriore depressione del terreno e fondamentalmente metterebbe allo scoperto 180 tonnellate di combustibile nucleare ormai ridotto a pulviscolo radioattivo, 11mila metri cubi di acqua e 740.000 metri cubi di macerie altamente contaminate. Gli scienziati ucraini hanno valutato che la radioattività totale delle sostanze custodite all’interno del sarcofago potrebbe superare i 20 milioni di Curie.

Il sarcofago era stato progettato per garantire una sicurezza di 20-30 anni, pertanto è necessaria la costruzione di un nuovo sarcofago sopra quello ormai fatiscente messo a protezione dell’unità 4 che possa avere una vita garantita almeno di 100 anni. I costi previsti per la costruzione di questo nuovo schermo di protezione ammontano a oltre 300 milioni di dollari e richiederà un lavoro di circa 5 anni. Per le riparazioni del sarcofago, il trattamento delle scorie e la definitiva chiusura dei reattori ancora funzionanti (l’ultimo dei quali ha cessato la propria attività il 15 Dicembre 2000) con la conseguente riconversione professionale degli addetti e la creazione di centrali alternative, che garantiscano la produzione della stessa quota di energia, è stata chiesta alla comunità mondiale una cifra di 4 miliardi di dollari.


LO STATO DELL’AREA


Sono oltre 260.000 i Km quadrati di territorio distribuiti tra l’Ucraina, la Bielorussia e la Russia che presentavano a dieci anni dell’incidente, livelli di contaminazione da Cesio137 superiori a 1 Curie per Km quadrato. L’area compresa in un raggio di 30Km dalla centrale di Chernobyl è pressoché disattivata e 60 insediamenti abitativi, per un totale di 167.000 persone, all’esterno di essa sono stati evacuati. Nel raggio dei 30 Km intorno al reattore vi sono circa 800 siti di seppellimento di scorie e macerie, allestiti in totale stato di emergenza, senza quindi particolari sistemi di protezione se non uno strato di argilla. Queste discariche radioattive potrebbero essere responsabili degli elevati livelli di contaminazione dei sedimenti del fiume Dniepr e del suo affluente Prjpiat, che forniscono acqua a 30 milioni di persone.


La Bielorussia in cui si è riversato il 70% del fall-out radioattivo, è divisa in 6 regioni ( Minsk, Gomel, Mogilev, Grodno,Brest, Vitebsk); dei 236.000 Kmq dell’intera superficie il 23% presentano livelli di contaminazione superiori a 1 Cu/Kmq e fra questi , 16.000 sopra 5 Cu/Kmq ; 6.400 Kmq sopra 15 Cu/Kmq; 2.200 sopra i 40 Cu/Kmq. Dell’intera popolazione costituita da oltre 10 milioni di persone, 24.700 persone da 107 località dei distretti di Bragin, Narovlia e Khoiniki nella regione di Gomel vennero evacuate dopo l’incidente e circa un quinto vive tuttora nelle aree contaminate: in pratica sola la regione di Vitebsk ha zone immuni da radioattività . La ricerca del livello e della natura della contaminazione radioattiva in Bielorussia evidenzia che il pericolo della contaminazione non è dovuto solo alla quantità dei radioisotopi rilasciati dal fall-out, ma dipende considerevolmente dalla struttura chimica e quindi dalla capacità di penetrazione di tali isotopi negli strati superficiali del suolo.

Ciò determina conseguentemente la loro mobilità e capacità di ridistribuzione nel terreno, nelle acque superficiali e profonde, nelle piante e quindi nell’intera catena biologica. Il 20% del territorio boschivo ( 1,3 milioni di ettari) della Bielorussia risulta contaminato; 257.000 ettari di terreno agricolo delle regioni di Gomel e di Mogilev sono inutilizzabili per l’agricoltura ed una quota analoga di territorio entro il raggio di 30 Km dalla zona del disastro, risulta inabitabile. La produttività agricola e l’allevamento del bestiame hanno subito danni ingenti e risultano tuttora deficitari per il fabbisogno interno. Il danno economico è stato in oltre 200 miliardi di dollari ( più di 300 miliardi di lire italiane).


Fonte: Legambiente