I sentieri dei nidi di ragno

E’ questo il primo romanzo di Italo Calvino, scritto nel 1946 e pubblicato nel 47 . Nella prefazione che lo stesso Calvino scrisse all’edizione del 1964, così lo commenta:
“Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti(…) I segni dell’epoca letteraria si confondono con la giovinezza dell’autore. L’esasperazione dei motivi della violenza e del sesso finisce per apparire ingenua (…) Altrettanto ingenua e voluta può apparire la smania di innestare la discussione ideologica nel racconto (…)
Come entra questo libro nella” letteratura della Resistenza”? Al tempo in cui l’ho scritto, creare una “letteratura della Resistenza” era ancora un problema aperto, scrivere il “romanzo della Resistenza” si poneva come un imperativo (…) A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo  e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi di un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse ai margini della guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo (…)
Posso definirlo un esempio di letteratura impegnata, nel senso più ricco e pieno della parola (…) Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata.
(…) Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me ne ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione.
(…) Quando cominciai a sviluppare un racconto sul personaggio d’un ragazzetto partigiano che avevo conosciuto nelle bande, non pensavo che m’avrebbe preso più spazio degli altri. Perché si trasformò in un romanzo? Perché - compresi poi – l’identificazione tra me e il protagonista era diventata qualcosa di più complesso. Il rapporto tra il personaggio del bambino Pin e la guerra partigiana corrispondeva simbolicamente al rapporto che con la guerra partigiana m’ero trovato ad avere io.
(…) La memoria – o meglio l’esperienza, che è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso -, l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria (ma non solo di quella),ricchezza vera dello scrittore (ma non solo di lui), ecco che appena ha dato forma ad un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini. (…) Un libro scritto non mi consolerà mai di quello che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che, custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita ascrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo.
Italo Calvino, giugno 1964

Trama e commento
“Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagno il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti (…) Ma già Pin è in mezzo al carrugio, con le mani nella tasca della giacca troppo da uomo per lui, che li guarda in faccia uno per uno senza ridere…”
Così è presentato Pin all’inizio del romanzo. E’ un ragazzo, ma la vita, anzi la malavita in cui è cresciuto, lo ha reso adulto anzitempo; conserva però l’aria baldanzosa e scanzonata, propria della fanciullezza. Fa da “ruffiano” alla sorella che esercita la prostituzione e, durante l’occupazione tedesca, si presta a collaborare col nemico.
Pin fa il suo “lavoro” con indifferenza e con cinismo, senza rimorsi; sembra uno scugnizzo napoletano trapiantato in un paese della Liguria.
Mentre i romanzi sulla Resistenza cominciano in genere con la presentazione di eroi “positivi” impegnati a combattere il nazifascismo, Calvino inizia il suo romanzo presentando un personaggio negativo, per di più tratto dall’ambiente della malavita, parte di un’umanità che vive ai margini: antiborghese, antifascista, antiliberale, antitutto insomma. Si tratta di un’umanità che sul piano biologico potremmo definire animalesca, sul piano sociale, come appartenente al sottoproletariato, e sul piano ideologico, anarchica, nel significato più ampio del termine.
Ma è proprio così degradata e così negativa questa umanità? Forse sì, forse no. Forse è soltanto il volto dell’umanità “vera”, prima che si affacciasse all’orizzonte la “linea” della “Storia”.
E la storia (con la s minuscola) prende l’aspetto di una rivoltella nella fondina di un soldato tedesco; si presenta subito con la violenza, o almeno con uno strumento di violenza. Poteva essere un coltello di pietra o una mazza ricavata da un ramo nodoso. Qui è una rivoltella, il progresso tecnologico ha già mandato in frantumi il sogno di Rousseau di un “universo naturale”.  Ma Calvino conserva dentro di sé quella teoria, come un tesoro da contrapporre alla cecità della catastrofe voluta dagli uomini.
Pin non è certamente il “bon sauvage”, ma è indubitabile che è un “sauvage”, ed è vicino alla natura idealizzata da Rousseau, anche se è inserito nella Storia: ha dietro di sé secoli di miseria, di frustrazioni, di desideri di riscatto inappagati. In ogni caso è al di qua di quella che viene chiamata la "coscienza della situazione storica".
Tanto è vero che ruba la pistola al tedesco, mentre costui è in commercio amoroso con la sorella, senza sapere di preciso che cosa quel furto significhi. Glielo hanno suggerito alcuni uomini all’osteria e lui ha eseguito, ma più per provare il suo coraggio che per dare soddisfazione ai mandanti. Una volta rubata la pistola, decide di tenersela. E’ un oggetto prezioso per lui, l’arma lo esalta. Corre nel sentiero che lui solo conosce, osserva i nidi di ragno e nasconde la pistola sottoterra.
Lo schema della fiaba è già presente, sia pure in forma molto sfumata, nell’”oggetto favoloso”, cioè nell’arma che dà potere e potenza, come è appunto nella tradizione delle fiabe, secondo Propp.
Anche i nomi dei personaggi rimandano alle fiabe: Pin potrebbe essere il diminutivo di Pinocchio, poi c’è Lupo Rosso, il Dritto, Giraffa, il commissario Kim (come il protagonista dell’omonimo romanzo di Kipling) e infine il falchetto Babeuf (Gracchus Babeuf, 1760-1797, fu il primo rivoluzionario sociale moderno. Fece propria la causa del popolo lavoratore, teorizzando l'uguaglianza universale: le  idee gliele fornì la filosofia dell'Illuminismo, le armi la rivoluzione).
Vediamo quindi che Babeuf è un nome-simbolo dello spirito della guerra partigiana ed è anche un segno della cultura del giovane Calvino, espressa con ironia allusiva.
Tornando alla trama del romanzo schematizzata, Pin viene catturato dai tedeschi. In prigione conosce il partigiano Lupo Rosso e insieme fuggono. Durante la fuga Pin perde di vista il partigiano, vaga per i boschi finchè non incontra un uomo della banda del Dritto. “Nel distaccamento del Dritto ci mandano le carogne, i più scalcinati della brigata”.
Dritto è il contrario del partigiano che ha una coscienza di classe: è un individualista, ”nelle azioni vuole sempre fare di testa sua e gli piace troppo comandare e poco dare l’esempio” .
Inoltre si dichiara sempre malato; ma è un uomo coraggioso e nella guerra partigiana non si può fare a meno di nessuno.
Nella banda del Dritto, Pin si trova come a casa sua, nel suo quartiere: gli uomini che incontra sono come quelli di sempre; anche il personaggio chiamato Cugino, l’”odiatore delle donne”, gli è in qualche modo familiare. Per Pin, la guerra fatta così, in quella banda di derelitti, è un’avventura come un’altra. E le cose che vi accadono, come l’amore del Dritto per la moglie del cuoco e la vendetta di questi che appicca il fuoco all’accampamento, non lo sorprendono più di tanto.
Questo tono avventuroso si interrompe bruscamente quando, nel capitolo nono, arriva il commissario Kim per indagare su chi ha provocato l’incendio.
Kim è uno studente, ”ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e sugli effetti, eppure la sua mente si affolla ad ogni istante d’interrogativi irrisolti”. Non è aribtrario supporre che nel commissario Kim Calvino abbia voluto rappresentare se stesso; ed è per questo che ad alcuni critici questo capitolo è parso una stonatura stilistica, un’indebita intrusione autobiografica. E’ invece l’episodio della presa di coscienza della guerra partigiana, del suo significato.
La violenza e l’odio esistono in entrambi i fronti, in quello partigiano e in quello fascista. Ma Kim è certo di una cosa: lui e i suoi combattono per costruire un’umanità senza più rabbia, “serena, in cui si possa non essere cattivi”. Sono dalla parte della storia, del progresso: Negli altri, i fascisti, l’odio, il furore e perfino gli “ideali” non sono biologicamente molto diversi. Ma c’è una differenza decisiva: i fascisti combattono per “perpetuare quel furore e quell’odio” per ribadire il loro sistema mentale e politico fondato sul dominio brutale dell’uomo sull’uomo.
“Questo è il vero significato della lotta” pensa Kim “il significato vero, totale,al di là dei vari significati ufficiali”.
C’è un tono di predica demagogica che non appartiene alla poetica e alla cultura di Calvino, e soprattutto al mondo di Pin, per il quale il manicheismo si manifesta in forma istintiva, non certo come problema politico. Quando si mette a odiare il partigiano Pelle che è passato dalla parte dei fascisti, il suo primo pensiero corre alla pistola nascosta, all’oggetto magico il cui nascondiglio ha rivelato al traditore senz’accorgersene.
C’è una pagina molto bella e commossa, quando Pin corre verso il sentiero dei nidi di ragno e si accorge che quell’angolo di paradiso  che aveva scoperto e si era tenuto per sé, come l’unica cosa buona che gli fosse rimasta al mondo, è stato devastato dal traditore Pelle, che nella sua affannosa ricerca della pistola ha distrutto tutto.
Perduto il paradiso, privo dell’oggetto magico, cosa farà adesso Pin? Piange “a testa tra le mani. Nessuno gli ridarà più la sua pistola”.
Per la prima volta in tutto il romanzo piange lacrime vere. E piange perché gli hanno rubato una pistola, un’arma costruita per uccidere. Che senso ha questo pianto? Per un ragazzo cresciuto tra il sottoproletariato, un’arma è sì un giocattolo magico, ma anche l’unico amarissimo strumento di un possibile riscatto, benché ancora una volta non ne abbia la minima coscienza.
Pin poi ritrova la pistola nella camera della sorella, la prostituta che è stata con il traditore. Se ne impossessa e fugge, dopo aver insultatola sorella: ”Cagna! Spia!” . La guerra partigiana ha dato a Pin un barlume di coscienza di classe, che però subito si spegne quando ritorna sul sentiero dei nidi di ragno a mostrare all’unico amico che gli sia rimasto, Cugino, il suo paradiso, distrutto da quel fascista di Pelle.
Ed entrambi si augurano che il regno si ricostruirà a poco a poco da sé, che la natura tornerà a vincere sull’ira cieca e brutale degli uomini.
E’ notte, le lucciole emettono le loro luci intermittenti. Sembrano meravigliose, ma per Pin, viste da vicino, le lucciole “sono bestie schifose anche loro”. Calvino chiude prendendole distanze sia dalla storia che dalla natura.



Italo Calvino